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Una buona notizia può cambiare il clima

di Giacomo Vaciago

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14 giugno 2009

Gli effetti della crisi finanziaria sull'economia reale inizialmente modesti diventano drammatici dopo il fallimento di Lehman Brothers del 15 settembre 2008. L'intervento coordinato delle Banche centrali - molto enfatizzato l'8 ottobre con un taglio comune dei tassi di interesse - evita il peggio con riferimento al settore finanziario, ma ciò non basta a far ripartire l'economia.

Il panico dato dalla scomparsa di Lehman determina infatti condizioni di illiquidità totale cui l'industria può reagire in un solo modo: tagliando gli ordini, a cominciare da investimenti e magazzino. Per compensare ciò, servirebbe una "buona notizia" altrettanto importante e globale come lo era stata la "pessima notizia" della scomparsa di Lehman, ma di questi tempi ciò non è facile. È quindi improbabile un recupero altrettanto rapido e intenso come lo è stato il crollo dei mesi successivi al 15 settembre. Più probabile che il graduale e lento cumularsi di tante piccole buone notizie, prima o poi (ma ciò può richiedere tre anni) ci riporti a dov'eravamo un anno fa.
Lo "stato delle aspettative", che è quello che chiamiamo la "fiducia collettiva", è quanto accomuna miliardi di persone al mondo: non basterebbe (neppure se ci fosse) tutto l'ottimismo di 60 milioni di italiani. E nell'economia globale in cui viviamo, non ci sono più paesi-locomotiva. Quando ci sarà la ripresa, sarà comune come lo è stata la crisi dei mesi scorsi.

È la prima lezione che abbiamo imparato del modo di operare della "internazionalizzazione produttiva" che da vent'anni sempre più ci caratterizza. Non solo globalizzazione come è l'aumento degli scambi commerciali, ma è in modo ancor più radicale: organizzazione della produzione industriale su un numero "n" di paesi. Ci diceva Krugman - nella sua bella "Lezione Luca d'Agliano" tenuta due anni fa a Torino - che questa "frammentazione" della produzione su un numero "n" di paesi amplifica gli effetti degli shock, sia di quelli positivi sia di quelli negativi. Che è poi la seconda lezione imparata della globalizzazione: quando le cose vanno bene vanno meglio, ma quanto vanno male vanno peggio.

In tutti i paesi del mondo sono crollate le esportazioni: cioè quanto eravamo abituati a mettere fra le variabili "esogene", alle cui variazioni l'industria di ciascun paese si adegua (salvo recuperare nel più lungo periodo, quando le esportazioni vanno invece "meritate").
Ma nell'economia mondiale le esportazioni sono "endogene", nel senso che si limitano (come peraltro le importazioni) a seguire la matrice input-output di come la domanda finale viene soddisfatta da ciò che è prodotto (ovunque ciò avvenga; essendo molto limitata nel breve periodo la sostituibilità tra paesi e loro industrie). Dire che la produzione industriale e gli investimenti sono caduti per il crollo della domanda estera ("Considerazioni Finali" di Mario Draghi) è come dire che siamo in recessione perché il mondo (che ci comprende) è in recessione.

È questa la terza lezione che stiamo imparando: la crisi più grave della nostra storia non l'abbiamo "meritata", come è invece successo più volte, dalla prima crisi di metà anni 60, all'ultima di metà anni 90. Non consola, ma atterrisce sapere che puoi essere un ottimo imprenditore, a capo di un'ottima azienda, eppure gli ordini dei tuoi prodotti si dimezzano nel giro di qualche settimana.
Come usciamo dal pasticcio in cui ci siamo cacciati con il fallimento di Lehman del settembre scorso? È chiaro che ciascun paese da solo può fare ben poco: può sostenere, con un sistema efficiente ed equo di ammortizzatori sociali, il reddito (e quindi i consumi) dei lavoratori, consentendo così alle imprese di ristrutturarsi come richiesto dalla futura ripresa. Ce l'ha appena ricordato il Governatore della Banca d'Italia Mario Draghi: non possiamo uscire da soli dalla crisi - che è dell'economia mondiale - ma possiamo e dobbiamo ridurne le conseguenze negative anzitutto evitandone un ulteriore peggioramento. Mentre l'economia mondiale si avvicinerà alla ripresa se ritrova un'àncora positiva alla sua fiducia, che solo il G-20 può darle.

Dopo il successo della riunione di Londra del 2 aprile scorso, il clima è di nuovo peggiorato in parte per la situazione politica: c'è una leader scadente a Berlino e ce ne è uno scaduto a Londra, mentre c'è il vuoto a Bruxelles e Obama è stato finora più popolare che efficace. Sta di fatto che hanno ripreso a litigare governi e banchieri centrali di vari paesi e ben lo avvertono i mercati finanziari, che nel dubbio speculano sulle materie prime (come un anno fa: dollaro debole; food an energy alle stelle: ma non c'era una crisi grave?).
Due riunioni del G-20 all'anno basteranno (forse) per le riforme, ma non bastano per il governo dell'economia mondiale. Senza un'àncora solida allo "stato delle aspettative", si resta in condizioni troppo incerte perché l'economia possa riuscire a ripartire presto e bene con produzione e investimenti.

14 giugno 2009
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